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Intervista a Giorgio Attanasio

Buon mercoledì booklovers!

Oggi vi porto a conoscere un nuovo autore scoperto da poco e di cui presto leggerò qualcosa che attira moltissimo la mai attenzione.


Ma bando alle ciance... diamo il benvenuto a Giorgio Attanasio Ciao, Giorgio grazie per il tuo tempo prezioso. Rompiamo subito il ghiaccio: raccontaci un po’ di te e da dove nasce la passione per la scrittura?




"Innanzitutto, vorrei ringraziarla per la gentile ospitalità. Nella vita mi occupo di Tecnologie Alimentari. Quell’insieme di scienze e tecnologie che consentono di ideare, progettare, studiare o controllare prodotti alimentari. Un lavoro che, come può ben immaginare, ha poco a che fare con questa passione che mi porto dentro sin da bambino.

Ripensando a quando sia nata, credo di poterle dire senza timore di smentita, in prima media. Il primo compito in classe d’italiano. Ricordo ancora quelle sensazioni. La possibilità di esprimermi in modo pieno e profondo. Uscendo da schemi predefiniti e preimpostati. L’emozione di dare una consistenza ai pensieri. Il brivido di sapere che quelle emozioni condensate in poche gocce di inchiostro su carta sarebbero potute arrivare a qualcuno. Stupendo."

 


Wow! Devono essere state davvero bellissime emozioni. Grazie per averle condivise con noi. Adesso, da adulto cos’è per te la scrittura?


"Innanzitutto, mi lasci fare una premessa.

Ritengo che la scrittura da un punto di vista tecnico sia ancora oggi uno dei mezzi più efficaci per una corretta comunicazione. E non perché non creda, o non ami comunicare verbalmente. Anzi.

A volte, però, nella comunicazione verbale tendiamo ad essere superficiali. Spesso diciamo parole poco adatte. Magari per rabbia, frustrazione o semplicemente per la fretta. Parole di cui magari poi ci pentiamo. Allo stesso modo, a volte quando ascoltiamo, siamo portati a trarre conclusioni affrettate. Non aspettando che il nostro interlocutore abbia completato il proprio discorso o interrompendolo, credendo di avere capito il senso di un discorso da poche parole. Attraverso la scrittura, invece, è possibile scegliere le parole migliori. Sapendo di avere il tempo per rifletterci. Avendo la possibilità di usarle nel pieno rispetto del loro significato e della loro essenza. Allo scopo di chiarire (e chiarirsi) il messaggio che si vuole trasmettere.

Tanto detto, per me la scrittura è anche la forma d’arte nella quale più trovo soddisfazione ad esprimermi. Il modo preferito per trasferire in modo chiaro e non interpretabile un punto di vista o un messaggio. Ma soprattutto è un’esperienza emozionante. Un percorso sempre affascinante ed ogni volta diverso. Il mezzo più sublime per cristallizzare sentimenti, idee ed emozioni. L’unica attività nella quale finisco sempre per perdermi beatamente come un bambino al Luna Park."

 

Mi trovi pienamente d'accordo con la tua premessa. La fretta e la velocità richieste oggi non ci permettono di ascoltare e ponderare le parole quando parliamo, ma per fortuna esiste la scrittura. E ora una domanda che crea difficoltà a molti rispondere: ti ispiri a qualcosa di particolare quando scrivi (canzoni, posti, momenti vissuti, racconti…)?


"Questa è veramente una bella domanda. Di primo acchito direi a tutto ed a niente.

A “tutto” perché, quando descrivo un luogo, un personaggio o una situazione, o quando do voce ai miei personaggi attraverso i loro dialoghi, finisco inevitabilmente per pescare dentro di me. Nel mio vissuto. Attingendo alle mie conoscenze, alle mie emozioni, alle mie idee ed alle mie esperienze. Anche volendo non potrei non farlo. Però questo accade quasi sempre senza l’intenzione di selezionare questo o quel ricordo. Le faccio un esempio.

Nel romanzo attualmente in lavorazione (che spero di pubblicare entro la fine dell’anno) c’è una scena nella quale due personaggi, Peter e Demetra, sono soli in camera di lei. Mentre scrivevo, ad un tratto, sentii la necessità di assecondare la volontà di uno dei due personaggi (Demetra) di mettere una canzone. Fu così che improvvisamente venne fuori un vecchio 45 giri di lei: “Wonderful Tonight” di Eric Clapton. Quella canzone non è la mia preferita. Anzi. In una ipotetica classifica delle prime cinquanta canzoni della mia vita, molto probabilmente non ci sarebbe. Volendo pensarci razionalmente avrei potuto scegliere un’altra canzone. E invece, in quel momento Demetra ha frugato dentro di me e, come per magia, ha tirato fuori quelle parole che, in un secondo momento, mi sono reso conto essere quelle che meglio descrivevano i suoi sentimenti per Peter.

Contemporaneamente a “niente” perché quando scrivo parto sempre e solo da una ispirazione. Da una singola scintilla. La mia musa può essere un sogno, un’immagine o anche solo una scena che prende improvvisamente forma. Così dal nulla.

Ed è solo seguendo quella scia di emozioni improvvise che inizio a scrivere. E scrivendo cerco di coglierle preservandone l’essenza più pura. Lasciando che siano queste a suggerirmi che forma e consistenza dare alla trama."

 

Molto interessante davvero! E ora, parlaci di “Due minuti d'inferno”: da dove nasce l’idea per questo tuo romanzo?


"Un sogno. O meglio, un incubo dal quale mi svegliai madido, con il fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata. In quell’incubo vissi in prima persona una delle scene più angoscianti del romanzo. La mattina seguente, poi, al brivido che ancora sentivo scorrere sotto pelle, si aggiunse un’amara riflessione.

Quella esperienza vissuta la notte precedente stava iniziando a sedimentare. Lasciandomi una domanda che mi apriva a riflessioni su cose che avevano poco a che fare con il surreale e l’onirico di quella trama (che stava rapidamente prendendo forma). Fu così che, in modo del tutto naturale, il “fil rouge” che avrebbe legato Marco alla sua vicenda, nella mia testa divenne anche il substrato sul quale poggiare quel messaggio frutto di quella riflessione. L’idea si era formata. La sfida a quel punto era cercare di trasmettere le emozioni di quell’incubo (profonde e disarmanti) nella loro forma più autentica, lasciando però che queste portassero il lettore a porsi la stessa domanda che mi ero posto io: “Quanto realmente si è consapevoli della scelta del proprio credo?”

Lungi da me farne una questione morale. Sono fermamente convinto che ognuno abbia il sacrosanto diritto di professare qualunque fede o anche di non professare. Purché, però, tale scelta non sia frutto di una situazione di comodo. Superficiale, opportunistica o semplicemente introiettata passivamente dall’educazione che si è ricevuta.

Sono fermamente convinto, infatti, che a prescindere se ci si professi credenti, atei o agnostici, è necessario interrogarsi e lavorare su sé stessi per migliorarsi e dotarsi di una propria morale solida sulla quale poggiare il senso della propria vita. Il monito, se così possiamo definirlo, è riflettere prima di porre sé stessi al centro di tutto. Scegliendo di deificarsi e dedicarsi solo alle proprie esigenze ed ai propri desideri. Magari anche a discapito dell’interesse di chi ci circonda. Perché molto spesso, come succede a Marco nel romanzo, questa scelta può rappresentare un cammino estremamente infido, traditore ed estremamente pericoloso."


Messaggio che condivido in pieno. Spesso mi trovo circondata da persone che affermano proprie credenze ma non sanno motivare il perché ci credono. Sembrano preda di un'idea altrui che non hanno approfondito e di cui non si sono fatti una propria opinione. Io stessa per diversi anni sono stata "vittima" di questa cosa, poi non ho ben capito cosa sia successo ma sono riuscita ad uscire da questo "circolo vizioso" originato dalla mia educazione e a farmi una mia idea sentendomi più libera e leggera nel professare quello in cui credo anche se va contro altri.

Qui veniamo ad un'altra domanda sorta leggendo la trama del tuo libro: cosa ti ha spinto a decidere di scrivere in thriller onirico? 


"Come ho già avuto modo di accennare, l’ispirazione. In quell’incubo mi ritrovai dinanzi a quello che sapevo essere un vecchio ospedale psichiatrico di una campagna desolata. Tutto attorno c’era una nebbia fitta. Una volta entrato, un’infermiera mi accompagnò fin dentro un piccolo e polveroso ufficio dove c’era un vecchio telefono a disco. (Chi ha più di quarant’anni dovrebbe ricordarselo…). Dovevo fare una telefonata ma non riuscivo a comporre il numero. Ogni volta che giungevo alla penultima o all’ultima cifra inesorabilmente sbagliavo. Quando, in preda alla rabbia, uscii da quel piccolo spazio per tornare nel corridoio dal quale ero giunto mi ritrovai da solo in un ambiente completamente diverso. Catapultato all’interno di un incubo nell’incubo. Quelle sensazioni di profonda ansia ed angoscia non potevano non permeare tutta la trama del romanzo. Sotto un certo punto di vista, Due minuti d’inferno era già un thriller onirico prima ancora di essere scritto."


Posso solo provare ad immaginare lo stato d'animo con il quale ti sei svegliato da questo incubo e questo mi incuriosisce ancora di più e aumenta la mia voglia di iniziare subito "Due minuti d'inferno". Ora è quasi d'obbligo chiederti un buon motivo per leggere il tuo romanzo?


"È innovativo. Non è la solita storia di fantasmi, demoni, alieni o vampiri. Non ci sono serial killer, né omicidi dettati da interesse, passioni o frustrazioni. Eppure “Due minuti d’inferno” è in grado di sorprendere il lettore, pagina dopo pagina. Di coinvolgerlo lentamente all’interno di una trama nella quale ogni volta che si pensa di avere capito cosa stia succedendo tutto si rimette in gioco. È un po’ come in un vero incubo nel quale la razionalità non ha mai il sopravvento sull’immaginazione in quanto ambedue assumono le stesse forme e gli stessi volti. È così che anche in Due Minuti d’inferno entrambe fluttuano costantemente, fondendosi l’una nell’altra. Generando quella sensazione che terrà il lettore legato alla trama fino all’ultima pagina. Conducendolo, come ogni incubo che si rispetti, ad un finale da mozzare il fiato."

 

Proprio quello che cerco in un buon thriller: la difficoltà di capire quello che sta succedendo. Per finire la tortura, lasciaci una frase, raccontaci un aneddoto, un libro o qualsiasi cosa ti rappresenti al meglio.


"Ne potrei citare molte: frasi, aforismi o aneddoti. Potrei parlarvi di libri o anche di una canzone. Però ho scelto di condividere con tutti voi un brano tratto dall’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam. Un pezzo del quale condivido ogni parola, ogni virgola ed ogni suono. Uno di quei pezzi che leggendolo non può non venirti voglia di dire: 'Perché non l’ho scritto io?':

'Osservate con quanta previdenza la natura, madre del genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile, brutto, insipido, fastidioso. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia. Il cuore ha sempre ragione.'"


Estratto molto interessante, libro che sicuramente dovrei recuperare. Ti ringrazio ancora per averci dedicato del tempo Giorgio e ti auguro un grandissimo imbocca al lupo per "due minuti d'inferno" e per il nuovo romanzo in stesura.

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